Eugenio Saguatti - scrittore, editor, verniciatore di steccati

Tantissimo si è scritto, detto, filmato sullo Sbarco in Normandia. Saggi e romanzi storici si sprecano, i film pure, a partire dal kolossal Il giorno più lungo, 1962, per arrivare al più recente Storming Juno, 2010, in cui si mostra – finalmente! – lo sbarco dall’ottica canadese.
Steven Spielberg raccolse così tanto materiale per girare Salvate il soldato Ryan, 1998, che alla fine delle riprese decise di tornare sull’argomento con una serie TV di dieci puntate, la meravigliosa Band of Brothers, 2001.

All’apparenza non c’è più niente da raccontare.
Eppure…
Tante sono le cose poco note o dimenticate rispetto alla portata dell’evento storico.

Per dire: nonostante la pianificazione accurata, quasi niente andò come previsto, in negativo ma anche in positivo, a cominciare dal meteo. Il successo dell’operazione è in parte dovuto a coincidenze e situazioni che hanno dell’incredibile.

Gli americani spesero milioni di dollari per costruire un computer enorme, nel tentativo di predire il tempo e decidere il giorno dell’attacco. Il risultato migliore che ottennero fu un’approssimazione del 50%; e sbagliarono.
I nazi invece avevano fatto calcoli giusti, ma gli si ritorse contro. Sapevano che il 6 giugno il tempo sarebbe stato brutto, quindi non si aspettavano l’invasione quel giorno. Nemmeno fecero alzare gli aerei che dovevano pattugliare dall’alto lo spazio marittimo tra Inghilterra e Francia.

I generali al comando scommettevano che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais, nel punto più stretto della Manica.
Rommel, richiamato dall’Africa apposta per difendere le coste della Francia, era di opinione differente. Calais era troppo scontata. Si recò sui luoghi, osservò, studiò, e disse che secondo lui sarebbero arrivati più a sud, in Normandia.
I capi di Stato Maggiore lo derisero, dissero che il sole d’Africa gli aveva cotto il cervello, e schierarono il grosso delle truppe alle spalle di Calais, a 350 chilometri di distanza.

L’attacco vero e proprio iniziò alle 6 del mattino, ma già da mezzanotte erano in atto manovre diversive. Vennero paracadutati manichini con petardi in zone lontane, poi seguirono lanci di truppe vere, ma tra buio e maltempo quasi tutti atterrarono fuori bersaglio. La confusione che ne seguì, per quanto non voluta, mandò in panico le difese nazi e, nel complesso, i paracadutisti portarono a termine le missioni a loro assegnate.

Nel cuore della notte qualcuno cominciò a capire che quello doveva essere il tanto temuto sbarco, quello vero, ma nessuno si assunse la responsabilità di svegliare Hitler.
Quando fu chiaro a tutti cosa stava succedendo, i nazi erano convinti in un primo tempo di ricacciare in mare gli assalitori. I generaloni – gli stessi che avevano scommesso su Calais – persero ore preziose a bisticciare tra loro su quale strategia adottare. Ognuno voleva intestarsi il merito del successo. Le prime azioni concrete arrivarono in tarda mattinata, quando ormai era troppo tardi.

Un passo indietro.
Un mese prima della data fatidica, in maggio, si andò vicinissimi a mandare tutto a monte.
Sul quotidiano inglese Daily Telegraph uscì un cruciverba che conteneva molti dei nomi in codice assegnati all’operazione.
Juno, Gold, Sword, Utah, Omaha, ovvero i cinque settori in cui era divisa la spiaggia dello sbarco comparvero tra le risposte.
Overlord e Neptune, le designazioni dell’intera manovra e l’attacco navale, pure.
Perfino Mulberry, nomignolo degli ingegnosi porti artificiali in cemento, fabbricati in Inghilterra e portati in Francia al traino di chiatte.

Era comune utilizzare false inserzioni sui giornali per comunicare tra spie. Quelle parole incrociate sembravano svelare i segreti così vitali.
Anni di preparativi, centinaia di migliaia di uomini addestrati e pronti, armi e attrezzatura per miliardi di dollari; tutto sembrava perduto.
I servizi segreti fecero irruzioni a casa di uno sbigottito Leonard Sidney Dawe, un tranquillo professore di fisica di 55 anni, ex calciatore, enigmista per svago.
Torchiato come un’oliva nel frantoio, Dawe riuscì a dimostrare di non essere una spia: l’utilizzo di quei termini era solo una coincidenza, per quanto stravagante.

L’Operazione Overlord proseguì.