Eugenio Saguatti - scrittore, editor, verniciatore di steccati

Articolo scirtto per “Ultima pagina”

 

Di solito si identifica la scrittura di un romanzo con il picchiettare sulla tastiera. In realtà quella è soltanto una parte, forse la minore.

 

Anzitutto c’è stata la documentazione, poi ha preso forma il progetto: personaggi, ambientazione, trama. Dopo la parola Fine, invece, viene la revisione, che porterà alla seconda stesura.
Nella prima versione l’importante è lavorare in modo veloce e continuo, per quanto possibile, senza distrazioni o intoppi. Bisogna sbadilare: ci si concentra più sul contenuto che sulla forma. Arrivati in fondo, l’ideale sarebbe accantonare il testo per qualche mese, così da riprenderlo in mano a mente fresca. Più ci avete lavorato e più ve ne dovete staccare. Fatelo leggere a persone fidate, che vi diano opinioni sincere. Incrociate i pareri e date maggiore considerazione a quelli che si ripetono. Su dieci beta-lettori, se otto vi dicono, per esempio, che la trama è confusa, è probabile che abbiano ragione. Se uno soltanto ve lo fa rilevare, forse si tratta di gusti personali.
A quel punto inizia il lavoro vero: la revisione.

Si passa attraverso due fasi distinte: demolizione e ricostruzione. Ma cosa, e come, demolire? Possiamo provare a distinguere due aree principali su cui intervenire: i contenuti e la forma.

I contenuti

Meglio partire dagli aspetti importanti e procedere via via a raffinare. Ogni cambiamento ha ripercussioni a cascata sul resto, quindi è inutile sistemare la punteggiatura, per esempio, se poi dobbiamo tagliare dei pezzi.

E proprio da lì si comincia: dal tagliare. Una formula empirica potrebbe essere:

2ª stesura = 1ª stesura – 20%

Mettiamo che il totale sia 400.000 battute, ovvero 220 cartelle standard. Imponiamoci l’obiettivo di scendere a 320.000 (più o meno 180 cartelle). Anche se non ci arriviamo, avremo sfrondato un bel po’. Nelle scene di azione si può amputare anche il 30%. Devono essere scattanti: frasi corte, parole corte.
Fate conto di dover volare in mongolfiera: buttate fuoribordo la zavorra che vi tiene inchiodati a terra. Via le frasi troppo lunghe e intricate: “Fu a causa di questi ragionamenti condotti tra sé e sé che Gabriele, seppur a malincuore, si arrese all’evidenza di non riuscire più a mantenere la ormai anziana Lancia Delta e decise di venderla.”
Deve diventare qualcosa tipo: “A malincuore, Gabriele decise di vendere la vecchia Lancia Delta.”

Via gli eccessi di informazione: “La Lancia Delta prima serie, immatricolata nel settembre del 1992, parente alla lontana della vettura da competizione che tanti premi si era aggiudicata sugli sterrati di tutto il mondo.” Ce ne frega qualcosa?
Via anche i riempitivi, quei pezzi che buttiamo lì perché il capitolo ci sembra scarno. Meglio corto e incisivo che lungo e sbrodolato. Niente preamboli, subito al sodo: “In quella profumata giornata di primavera, quando i ciliegi cominciano a fiorire e l’inverno è definitivamente alle spalle, Gabriele – apparentemente senza una ragione precisa – decise di vendere la Lancia Delta.” Riproviamo: “Un giorno, di punto in bianco, Gabriele decise di vendere la Lancia Delta”.

Qui forse ci sta una parentesi. Non è che la prosa debba essere sempre secca e minimale come un osso di seppia. Ci può stare una digressione ogni tanto, così come una descrizione ariosa, ma va fatto con cognizione di causa. È come fare ordine nello sgabuzzino: svuotate, pulite, scartate le cianfrusaglie. Scegliete con attenzione cosa conservare e rimettetelo dentro in maniera più ordinata.

I personaggi principali devono risultare tridimensionali e sfaccettati, con pregi e difetti, idiosincrasie, debolezze. Il famoso tallone d’Achille, in realtà è il punto di forza dell’eroe greco, almeno sotto l’aspetto letterario. Se fosse davvero invulnerabile come crede, sarebbe noioso. Invece noi lettori sappiamo di quel benedetto calcagno che non ha toccato le acque dello Stige, e quando Achille scende in battaglia stiamo in apprensione. Identico, in questa prospettiva, è Sigfrido. Hagen trama perché Crimilde ricami una croce sul mantello di Sigfrido, proprio dove il sangue del drago non è arrivato. Per proteggerlo, dice Hagen, ma noi sappiamo a cosa mira il vassallo e temiamo per l’eroe.
Dobbiamo diventare intimi con i nostri personaggi, come se raccontassimo di un amico che conosciamo dall’asilo. Hanno dimostrato di possedere un carattere, devono rimanere in linea con quello. Il prudente riflessivo prenderà dei rischi soltanto se messo in condizioni critiche. Al contrario, l’avventato agirà spesso secondo istinto, ma non è detto che sia stupido, quindi non si butterà in imprese disperate tanto per fare. Il collerico reagirà male nella maggior parte delle situazioni, ma non sempre; perfino lui ha un lato più morbido e sta a noi portarlo alla luce nelle occasioni giuste. Se così non è, spesso bastano pochi tocchi per ricondurre un protagonista entro i panni iniziali. Mano a mano che si passa a personaggi di secondo o terzo ordine non è necessario essere così accurati. Alle comparse è sufficiente dedicare poche parole.

In un racconto breve possiamo anche andare a braccio, ma in un romanzo diventano indispensabili le schede riassuntive, che devono essere tanto più precise quanto è importante il soggetto. Altrettanto cruciale può essere lo schema delle relazioni: Tizio conosce Caio, il quale conosce Sempronio. In questo modo teniamo sotto controllo i gradi di separazione tra i vari attori e non dovremmo avere sorprese. Che Darth Vader sia il padre di Luke Skywalker, e quindi anche della principessa Leila (dunque suocero di Ian Solo!) deve essere una sorpresa per lo spettatore, ma a noi deve essere chiaro in ogni momento.

La trama va ispezionata punto per punto, come se fosse il testo di un rivale. Siamo sicuri, per esempio, che gli eventi si susseguano con logica, o li abbiamo stiracchiati per farli combaciare con quello che avevamo in testa? Niente deve capitare “perché sì”, o perché noi abbiamo bisogno che accada. Il protagonista (una guerriera, un poliziotto, una spia) ha una missione; l’avversario lo ostacola in tutte le maniere.
Mettiamoci nei panni dell’antagonista: ha sempre fatto del suo meglio – dunque l’eroe prevale perché superiore –, oppure ha “timbrato il cartellino”, ovvero si è sbattuto il minimo da contratto? Molto spesso i personaggi prendono iniziative, scalpitano per andare dove non avevamo previsto. Se li forziamo a rimanere entro i binari la narrazione ne risente. Se ci sono punti deboli, coincidenze smaccate, sottotrame in sospeso, spiegazioni irrazionali, dobbiamo scovarli e puntellare la struttura, o rischia di franare in faccia al lettore.

L’ambientazione deve essere consona alla storia. Se si tratta di un noir odierno, nella periferia di Milano, bastano pochi accenni qua e là, tanto più o meno conosciamo il contesto. Tutt’altra faccenda è se stiamo raccontando di un tempo o un luogo diversi dai nostri. In questo caso la scenografia va ricostruita a dovere e illustrata poco alla volta.
Il pescatore innamorato della contessina nel ’700 inglese e il commerciante di rottami spaziali nei cieli del XXV secolo in fin dei conti si somigliano: entrambi fanno parte di un mondo sconosciuto. Bisogna dare al lettore il tempo di abituarsi. È come invitare uno sconosciuto a casa nostra: abbiamo il dovere e la responsabilità di metterlo a proprio agio, per quanto spetta a noi.

La forma

Fatto questo, si passa a come si presenta il testo. Si apre la caccia agli avverbi in –mente: “Decisamente fuori posto sul lunotto posteriore, il cuscino a forma di cuore era esattamente lì da anni, precisamente da quando Chiara gliel’aveva generosamente regalato.” “Il cuscino a cuore era sempre stato sul lunotto posteriore, da quando gliel’aveva regalato Chiara, anni addietro. Era fuori posto allora e lo era anche adesso.”

Gli aggettivi: al massimo, ma proprio a esagerare, uno per sostantivo. “La luna tonda, argentea e splendente illuminava la notte calda, umida e silenziosa”. Per carità. “La luna piena illuminava la notte”. Basta. Il resto, se proprio serve, dopo, a piccole rate.

Particelle pronominali (mi, ti, ci, si, vi) e aggettivi possessivi (mio, suo, loro) non rubano tanti caratteri, ma sono molesti da leggere. “Prese il suo portafoglio dalla sua tasca e cercò il suo biglietto da visita”. Terribile, vero? Nove su dieci sono da estirpare, servono solo a creare confusione. Eppure capita fin troppo spesso. “Prese il portafoglio dalla tasca e cercò il biglietto da visita”.

Stessa cosa con le congiunzioni e gli avverbi di tempo: che, eppure, prima, poi, dopo, già. Originale: “Ci sono momenti che fanno pensare che tutto sia inutile.” Rivisto: “In certi momenti arrivi a pensare che tutto sia inutile”. Oppure: “Prima tolse il tappo dall’obiettivo, poi puntò la fotocamera e dopo scattò”. Diventa: “Tolse il tappo dall’obiettivo, puntò la fotocamera, scattò”. Pulito, lineare.

Non si sa mai bene come trattare le D eufoniche: le metto, non le metto? “Ad andare avanti ed indietro tra casa ed autostazione furono Terenzio ed Otello, mentre Giuditta ed Annastella rimasero ad aspettare vicino al telefono.” Qualcosa è da togliere.

  • Meglio piazzarla solo davanti alla stessa vocale: ed eventuale, ad altri. Si fa eccezione se la vocale è seguita da D. No ad addentare, sì a addentare; no ed edificante, sì e edificante;
  • No davanti a vocale differente: ed altro, ad intasare;
  • Mai davanti a O, U. Quindi, no: ad oltranza, ed uguale, od ottone;
  • No davanti a parole straniere, né a H: no ad hotel, ed hamburger, ed extension; sì a hotel, e hamburger, e extension;
  • Esistono anche le cosiddette “espressioni cristallizzate”, quelle entrate nella consuetudine prima che ci si ponesse il problema: rimangono come sono, tipo ad esempio;
  • Ovvio che le locuzioni latine, come per tutte le lingue straniere, sono da conservare intatte: ad interim, ad honorem, ad hoc.

Frasi fatte, luoghi comuni, accostamenti logori sono da evitare come il passeggero che attacca bottone in treno. La splendida cornice, indagine a trecentosessanta gradi, a braccia aperte, a bocca asciutta, il frutto proibito, far raggelare il sangue nelle vene… l’elenco è infinito, ma la pazienza del lettore no. Danno un’impressione di pigrizia e sciatteria che non giova per niente. Evitate la gabbia del già sentito. Viene da chiedersi: ma sa dirlo con parole sue o no?

Il linguaggio tecnico è spesso fonte di guai. Ci sono autori che con molta furbizia riciclano nei propri racconti il mestiere quotidiano, ed è giusto, ma senza esagerare. “Escutemmo de facto il concusso” o “Baipassammo la valvola termoionica con il disgiuntore polarizzato” sono stranianti, escludono qualsiasi lettore non conosca la materia, ovvero la stragrande maggioranza. Ai fini della lettura si tratta di gergo, né più né meno di quelli usati dalle bande di strada: “Ehi, bro, sciallo che arriva la bongata”. Utilizzato con parsimonia, nel giusto contesto, può servire a creare l’atmosfera, ma se ci scappa di mano diventa criptico, quindi respingente.
La fluidità e l’immediatezza sono sempre da preferire. Può capitare di andare ad accartocciarsi in frasi arzigogolate o legnose che non hanno ragione di essere. “Arrivò a un punto in cui due strade provenienti da direzioni diverse si intersecavano” può diventare senza fatica “Arrivò a un incrocio”.

Reiterare i concetti denota insicurezza, come se l’autore pensasse: meglio ribadire, magari qualcuno non ha capito. “Tornammo sui nostri passi, ripercorrendo a ritroso la stessa strada che avevamo già fatto all’andata” è ridondante. Il lettore permaloso – e ce ne sono, eccome – potrebbe pensare “Ma mi prende per stupido?” ed è capace di offendersi. “Tornammo indietro” è sufficiente nella maggior parte dei casi; “Tornammo sui nostri passi” va bene se si vuole precisare, ma il resto è di troppo.
Le ripetizioni sembrano avere un’intelligenza propria: si camuffano e sperano di salvarsi. “Parlò, parlammo, parlai” hanno radice comune, quindi sono considerate ripetizioni. “Le loro vite erano appesa a una vite spanata” o “Lisciò il telaio della vetrata con la carta vetrata” hanno significato differente, ma suonano uguali, perciò da cambiare.

Altro errore difficile da stanare è quello che riguarda rime, assonanze e allitterazioni, che producono una fastidiosa sensazione di filastrocca. “La tradizione nella legione ha la funzione di unione” fa accapponare la pelle. Si scopre con molta più facilità se si legge ad alta voce o, meglio ancora, se ci si fa leggere il testo da qualche anima pia. Al contrario, “Lèggere le pagine leggère” si nota meglio nello scritto. “Le troppe trappole tradirono il trapper” sembra una mitragliata: tro-tra-tra-tra: “effetto Trentatré trentini”. Succede soprattutto con i gruppi di consonanti dure: “Attaccammo gli accattoni prima che attecchissero nella piazza”, ma pure quelle morbide non scherzano: “La bolla bollente ballava davanti ai suoi occhi.

Anche i gerundi hanno lo stesso problema. “Girando nel corridoio di destra, correndo verso la biblioteca, non si accorse che il pavimento era bagnato. Riuscì a rimanere in piedi scivolando e mulinando le braccia.” Effetto campane: din don dan.C’è un’altra caratteristica nel gerundio: esprime contemporaneità. Sembra che gli avvenimenti si sovrappongano, appiattisce il tempo. O addirittura anticipa il risultato di un’azione: il tizio del corridoio prima scivola e mulina le braccia, dopo rimane in piedi. Se invece adottiamo la giusta successione diamo profondità. “Correva per arrivare in biblioteca. Girò a destra, ma non si accorse che il pavimento era bagnato. Scivolò, mulinò le braccia e rimase in piedi.” A proposito di scansione temporale: più lineare è e meglio viene recepita. “Attraversò la strada dopo aver guardato a destra e a sinistra” è complicata e non porta nessun beneficio. Meglio: “Guardò a destra e a sinistra e attraversò”.

Grammatica e sintassi sono ovviamente le fondamenta della scrittura; meglio quindi essere scrupolosi e controllare congiuntivi, concordanze, composizione del periodo. Soprattutto nelle frasi complicate i tempi verbali si aggrovigliano su se stessi che è un piacere. “Avrebbe voluto mangiare l’ultimo cioccolatino, ma era stato preceduto da qualcuno che si era dimostrato più furbo. Si chiese chi avesse potuto fargli un affronto simile.” Quando si ammucchiano troppi verbi appiccicati, meglio semplificare.

Non bisogna perdere d’occhio il senso della frase o del paragrafo. Particolarmente insidiose sono le metafore: per non ricadere nel già sentito si rischia di inventarsi varianti non all’altezza. “In quel momento si sentì come uno scoiattolo che si arrampica su un tronco.” Ovvero? Peloso? Con i dentoni?

Il celebre show don’t tell è né più né meno che uno strumento, non l’unico e non da idolatrare come sostengono alcuni, ma senza dubbio utile. Quando possibile, meglio mostrare che raccontare. “Aveva tentato di trovare posto nella locanda, ma il proprietario gli aveva detto di essere al completo.”

Oppure:

L’insegna ‘Il porco scannato’ era quasi illeggibile. Entrò lo stesso.
– Soldi e salute, mastro taverniere.
L’uomo stava passando lo straccio sul pavimento della sala grande, l’acqua del secchio era lurida. Raddrizzò la schiena per guardare lo straniero. – Se vuoi da mangiare sei in anticipo, apro tra un’ora. Se vuoi da dormire sei in ritardo: sono al completo.
Il viaggiatore scrollò il sacchetto che portava in cintura. – Nemmeno se pago bene?
– Domani c’è la fiera del bestiame, ho messo gente a dormire nello sgabuzzino delle scope.

Sì, vero, allunga, quindi da dosare, ma il mostrato risucchia il lettore dentro la storia, mentre il raccontato è come se ti lasciasse sulla soglia.

Il narratore va ragionato e impostato all’inizio. Prima persona o terza? Onnisciente o immerso? L’importante è che rimanga aderente all’idea iniziale. Molto spesso sfugge di mano, fa capolino dove non dovrebbe e spezza il ritmo del racconto. Tutti i commenti tipo “Cadde dalle scale e, poveretto lui, si ruppe l’osso del collo” sono fuori luogo se non abbiamo stabilito a monte che ci sia un dialogo a viso aperto con il lettore. È un po’ come se in un film il regista interrompesse la scena e si mostrasse per spiegare cosa aveva voluto dire. È uno degli errori più comuni.  Vale lo stesso per tutto ciò che può sapere soltanto il narratore: va dosato con cognizione di causa, oppure è da eliminare.

“Rovistò nello zaino e ne estrasse una boccetta di liquido infiammabile. La lanciò contro le mummie che avanzavano nel corridoio.”
Autore e personaggio sanno cosa c’è nella boccetta, il lettore no: perché rovinare la sorpresa? Mostriamo soltanto la sequenza dei fatti, come fosse un film. “Le mummie avanzavano lungo il corridoio. Rovistò nello zaino, estrasse una boccetta e la lanciò. Le bende si incendiarono, le creature non morte presero fuoco.” Scorre meglio e allo stesso tempo crea più tensione.

Nei dialoghi mancano le espressioni facciali e la gestualità, non possono essere identici al parlato reale. Nemmeno si possono discostare troppo, però, o suoneranno artificiosi. Un buon sistema per capire se funzionano o meno è leggerli ad alta voce, magari quando non c’è nessun altro in casa, altrimenti toccherà dare spiegazioni. Ancora meglio è farseli leggere. È vero che i dialoghi servono (anche) a trasmettere informazioni al lettore, ma c’è modo e maniera per farlo.

“– Come tu ben sai, caro Huzz, le armate dell’Oscuro Signore si stanno radunando ai confini del nostro amato reame.”
Più artificioso di così è difficile immaginarlo. Se il caro Huzz lo sa, perché l’interlocutore glielo ridice? Se invece non lo sa ancora, perché scegliere un approccio simile? È untuoso In aggiunta, pare plausibile che si debba sottolineare “il nostro amato reame” tra due che si dovrebbero conoscere bene? Classico esempio di parlare a nuora perché suocera intenda. All’apparenza il destinatario dell’informazione è Huzz, invece è il lettore, ma così è troppo scoperto.

Alternare frasi corte ad altre più lunghe è il sistema migliore per ottenere un ritmo che acchiappi. Troppe frasi lunghe fanno perdere il senso dell’orientamento. Troppe frasi corte di seguito producono l’effetto treno: tutum tutum – tutum tutum. L’ideale per addormentarsi.
All’inizio si diceva che nelle scene d’azione il ritmo dev’essere scattante. Una concatenazione di gesti veloci dovrebbe costare un tempo di lettura quanto più vicino possibile alla reale successione dei fatti.

Agenore caricò il peso sulla gamba destra, alzò quella sinistra portandola a sé, mirò al ginocchio indifeso di Ermenegildo e, fulmineo, sferrò un calcio con tutta la forza che aveva, stando attento a non sbilanciarsi. Ermenegildo, colto di sorpresa, sentì l’articolazione cedere. Cadde a terra come un sacco di patate, rotolò di lato ululando di dolore nel tentativo di non incassare altri colpi.

Versione 2: “Agenore sferrò un calcio in un ginocchio a Ermengardo, che urlò di dolore cadde e a terra.” Fine. Inutile tirarla troppo per le lunghe, tipo sequenza al rallentatore. Accorciare paragrafi simili del 30% non è difficile, anzi. Tra il primo esempio e il secondo c’è l’80% in meno di battute; basta mettersi nell’ottica giusta.

Saltellare dentro e fuori dalle teste dei personaggi può diventare antipatico. Il narratore onnisciente è un espediente ottimo se si vuole coinvolgere il lettore, ma c’è un limite oltre al quale si ottengono effetti indesiderati.

Ah, ti ho fregato, pensò Rosencrantz spostando l’alfiere.
Eh eh, tu credi di avermi messo in difficoltà, ma era proprio quello che mi aspettavo, gioì Guildenstern.
Guardalo come sghignazza,
si preoccupò Rosencrantz. Stai a vedere che sono caduto in una trappola.
Ancora una mossa
, trattenne il fiato Guildenstern, una sola, ed è matto.

Uno scambio così sincopato sembra un incontro di ping-pong. È complicato da seguire e rischia di risultare comico senza volerlo. Meglio metterlo sottoforma di dialogo, se lo si vuole lasciare così, oppure si modifica l’approccio e si racconta la scena da un’altra prospettiva.
Fate conto che si tratti di una videocamera in presa diretta. Ogni volta che cambiate visuale è come se l’appoggiaste sulla spalla di un personaggio, per mostrarci quello che vede lui. Quando la camera passa dall’uno all’altro sono scossoni e inquadrature sfocate. Meglio limitare il più possibile.

Lo stile va fissato nelle prime pagine e va mantenuto fino in fondo. Deve essere adatto alla storia che si sta raccontando: scattante per un thriller tutto inseguimenti e sparatorie, lento e dolente per una storia d’amore che si sfilaccia pagina dopo pagina. Se all’interno di un thriller c’è una storia d’amore triste, chiaro che lo stile si deve adeguare, ma con confini ben precisi e sotto stretto controllo.
Lo stile non è soltanto il linguaggio, ma anche ciò che scegliamo di raccontare e come lo porgiamo al lettore. Perché abbiamo deciso di sviluppare proprio quella storia e non un’altra? E perché da quella prospettiva? Probabilmente tocca qualche corda nascosta; cerchiamo di capire quale sia e sfruttiamola. Potremmo azzardare:

stile = forma + contenuto

Una pessima idea è quella di gonfiare la nostra esposizione, nel timore che non sia abbastanza interessante. Utilizzare perifrasi invece di frasi dirette, o adottare il sinonimo più strambo dal thesaurus di Word non dà tono alla narrazione, anzi, la rende pomposa (magniloquente? ampollosa? declamatoria?).
Al contrario, semplificare è quasi sempre una strategia vincente. Il che non significa banalizzare, tutt’altro. Essere complicati è facile: molto più difficile essere chiari e concisi.

Ultima, ma non certo per importanza, viene la punteggiatura: quando e dove piazzarla? Le regole delle elementari sono sempre valide: mai tra soggetto e verbo. “Zebulon, montò a cavallo” è sbagliato. Invece: “Zebulon, stanco di camminare, montò a cavallo” è corretto, perché l’inciso è una frase subordinata. Però troppe subordinate spezzano il ritmo, quindi l’ideale sarebbe: “Stanco di camminare, Zebulon montò a cavallo”.
Anche in questo caso può essere d’aiuto leggere ad alta voce. Dove prendiamo fiato, è probabile che vada almeno una virgola. Non è infallibile, ma è un buon inizio per farci l’orecchio. Frasi troppo lunghe e arzigogolate, dove il soggetto cambia più di una volta, o nelle quali sono contenuti più concetti diversi, magari espressi in sub-subordinate, o semplicemente quelle in cui non si arriva in fondo con il… uff… fiato – tipo questa –, ecco, magari è il caso di spezzarle e ricomporle con un punto fermo nel mezzo.

E con ciò siamo arrivati alla fine. Tutto qui? Il romanzo così è a posto? Di sicuro non ancora, ma è presentabile al pubblico. Lo si può spedire all’editore e sperare in bene. Sarà poi l’editor, nel caso, a fargli compiere il passo successivo.